Foto: Luigi Nono nella Chiesa di San Lorenzo durante l’allestimento del Prometeo, 1984 © Lorenzo Capellini - Courtesy Archivio Storico della Biennale di Venezia (ASAC)
Foto: Luigi Nono nella Chiesa di San Lorenzo durante l’allestimento del Prometeo, 1984 © Lorenzo Capellini - Courtesy Archivio Storico della Biennale di Venezia (ASAC)
Foto: Luigi Nono nella Chiesa di San Lorenzo durante l’allestimento del Prometeo, 1984 © Lorenzo Capellini – Courtesy Archivio Storico della Biennale di Venezia (ASAC)

Il ritorno a Venezia del capolavoro di Luigi Nono con i testi a cura di Massimo Cacciari

È molto difficile nel silenzio ascoltare gli altri… Quando si ascolta si cerca spesso di ritrovare sé stesso negli altri. E questa è una violenza del tutto conservatrice. (Luigi Nono)

Venezia, a cent’anni dalla nascita di Luigi Nono e quaranta dal debutto, Prometeo torna a vibrare nella secentesca chiesa sconsacrata di San Lorenzo, sul fondo di un campo chiuso tra il canale e due ali di palazzi. Qui, dietro la rapinosa facciata in mattoni a sbalzo predisposti per rivestimenti marmorei mai compiuti, è sepolto Gioseffo Zarlino, tra i massimi teorici musicali del Rinascimento, maestro tra gli altri di Vincenzo Galilei.

Divisa longitudinalmente dall’altare maggiore in due emicicli, ospitò l’Arca di Renzo Piano: «altra percezione possibile, dall’interno, nelle viscere del fantastico strumento musicale ligneo, e non è scenografia», scrisse Nono. Oggi è sostituita dalla struttura studiata da Antonello Pocetti e Antonino Viola, una serie di praticabili su tre diverse altezze dove settantanove musicisti sono distribuiti a ghirlanda nei due ambienti.

Su altane in posizioni intermedie – nei ruoli che furono di Claudio Abbado e Roberto Cecconi – Marco Angius e Filippo Perocco, coadiuvati dal maestro di coro Cristiano Dell’Oste e da un sistema di monitor, dirigono i quattro gruppi orchestrali, due ensemble di solisti, coro e voci recitanti.
Accanto all’Orchestra di Padova e del Veneto troviamo Roberto Fabbriciani al flauto e Giancarlo Schiaffini alla tuba che, con Alvise Vidolin per l’elettronica e Massimo Cacciari – curatore del vertiginoso intreccio dei testi – presero parte alla prima edizione dell’84.

Foto: Modello dell’Arca di Renzo Piano © Sabrina Corabi
Foto: Modello dell’Arca di Renzo Piano © Sabrina Corabi

L’unico soggetto mancante all’appello è l’Arca di Renzo Piano, che dopo le esecuzioni milanesi dell’85 giacque per vent’anni nei depositi del Teatro alla Scala e fu poi abbandonata in un magazzino della Brianza.
Anni lontani, anni di taglia e cuci di nastri da un quarto di pollice per i nostri Revox A77 pieni di suoni inauditi, ricercando le forme fantastiche d’un mondo musicale che insorgeva contro le (buone) maniere dei solenni repertori che studiavamo nei conservatori. Sembrava che la storia della musica si sbriciolasse in terre semivergini, ignote ai più. Nono era tra i pionieri, tra gli eroi, con quel nome ordinale di rievocazione shakespeariana, Luigi IX come Enrico IV, ma anche doppia negazione, un segno di rivolta. La generazione dei nostri maestri, a discendere da Maderna, tracciava scuole di pensiero concettuali, anche ideologiche, termine oggi blasfemo. Ma cosa produca l’assenza di tensione ideale e sociale è sotto i nostri occhi.

Una temperie fertilissima, di cui la mia classe ha vissuto l’ampia coda, quando era ancora lecito pensare che cambiare la musica avrebbe cambiato il Mondo. Quando, navigando tra i suoni che un’elettronica ancora rudimentale rendeva disponibili, potevano affiorare nuove poetiche.
Nono creò davvero con Prometeo un mondo, rarefatto e concreto a un tempo, che in quest’epoca di talk show in cui nessuno è capace di ascoltare risuona con siderale, omerica distanza. Vivo negli echi delle mille “serenissime” campane evocate dal compositore, nell’assenza d’immagine e di scena, dove il suono plasma anche il silenzio. I riflessi dei canali, la luce che buca le inferriate, le ombre mobili degli archi, dei corpi nelle volte si fondono in un unicum, rinviano alla sublime descrizione di Stendhal di come venisse eseguito il Miserere di Gregorio Allegri nella Cappella Sistina, rendendo tangibili le ragioni per le quali l’effetto del pezzo fosse tutto “nel modo in cui viene cantato e nell’ambiente in cui viene eseguito” (Stendhal, Vita di Mozart).

Rivedo il Maestro in una foto a piedi nudi accanto al letto, forse nella casa natale alle Zattere dove si spense l’8 maggio 1990. Da allora riposa sull’isola di San Michele, accanto a buoni compagni come Stravinskij, Djagilev, Ezra Pound. I suoi 66 intensi anni sulla Terra videro l’amicizia con Togliatti, i Ferienkurse für neue Musik a Darmstadt (1950-60), l’importante amicizia con Massimo Cacciari che lo introdusse ai testi di molti filosofi tedeschi tra i quali Benjamin, le cui idee sulla storia sono alla base di Prometeo. Tragedia dell’ascolto. Il titolo secondario si deve proprio a Cacciari, che compose il libretto convocando Esiodo, Eschilo, Sofocle, Euripide, Pindaro, Erodoto, Goethe, Hölderlin, Benjamin, Schönberg. Testi perlopiù incomprensibili durante l’esecuzione, per l’atomizzazione a cui Nono assoggetta le sillabe: musica, curve intonative, respiri, trasfigurano la parola in cerca di nuove dimensioni del significato e di nuove possibilità di ascolto.

Foto: Nuria Schönberg con Francesco Rampichini © Sabrina Corabi
Foto: Nuria Schönberg con Francesco Rampichini © Sabrina Corabi

Il significato, questa preda che tutti rincorrono, qui si frantuma nel senso della musica. Non c’è significato, ci sono vettori. Le parole vogliono dire, hanno una volontà. La musica vuole andare, indicare una direzione, appunto un senso. E le parole qui possono perdere significato per assumere senso, farsi musica. Dei versi in italiano, greco, tedesco, ricordo di aver colto il nome Kronos, subito sommerso in un’arcata, in un soffio.
Il titano Prometeo è ribellione, sfida all’autorità, alle imposizioni, metafora e archetipo di un sapere sciolto dai vincoli del mito, della falsificazione. Donare il fuoco agli uomini fu la scintilla che scatenò l’ira di Zeus, perché li rese alteri verso gli dei. Fu anche l’inizio della responsabilità.
Il desiderio di Nono di costringere a cambiare i canoni d’ascolto conserva tutta la sua efficacia. Per la prassi esecutiva, complesso intreccio di cui la partitura è progetto – da vivere con conoscenze legate alla pratica e al confronto con i protagonisti di allora – rimandiamo al catalogo nel quale Angius argomenta in La partitura non è l’opera. Vi si ritrova anche l’attualissimo dialogo tra Cacciari e Nono e molto altro.
Per noi è stata un’esperienza straordinaria, «questi legni, queste pietre-spazi di San Lorenzo, infiniti respiri», ci hanno accolto con l’emozione aggiunta di stare in ascolto accanto a Nuria Schönberg – figlia di Arnold e moglie di Luigi – e alle sue figlie Serena e Silvia, con le quali converseremo presso la Fondazione alla Giudecca. A loro la parola.

ALVISE VIDOLIN Docente di musica elettronica al Conservatorio di Venezia, ha curato la realizzazione e la regia del suono di opere dei maggiori compositori italiani. Ha diretto il live electronics di Prometeo.

Quando incontrò per la prima volta Luigi Nono?

Ebbi l’occasione di conoscerlo proprio all’Archivio Storico della Biennale di Venezia, quando organizzai nel ‘77 un convegno sulla musica elettronica. Nono venne in rappresentanza dello Studio di fonologia della Rai e anche della musica elettronica italiana, assieme al GRM di Parigi (Groupe de recherches musicales, ndr.), allo studio di Colonia e così via. Da quel momento, siccome io lavoravo allo Studio di sonologia computazionale dell’Università di Padova, Nono fu subito interessato anche all’esperienza della computer music che stava nascendo. Solo che i computer a quel tempo erano degli armadi enormi, intrasportabili e la sua esperienza non poteva essere portata in sala da concerto.

Con quale software gestite oggi il live electronics?

Con Max-MSP della Cycling 74, un ambiente di sviluppo grafico per la musica e la multimedialità, utilizzato da molti anni da compositori, esecutori, ricercatori e artisti interessati a creare software interattivo.

Quanti microfoni sono stati impiegati per il live e quanti diffusori erano distribuiti complessivamente in San Lorenzo?

In tutto trentasei microfoni. Per tutti i solisti, alcuni con doppio microfono, come il flauto basso o il clarinetto e il contrabbasso. Più il coro, gli attori, i vetri e quattro strumenti dell’orchestra, uno per gruppo. I diffusori erano dodici, ciascuno dei quali un array di tre altoparlanti.

Dal mio punto di ascolto, il rapporto dinamico tra suono naturale e suono elettrodiffuso sembrava leggermente sbilanciato in favore del secondo. È così o è solo una mia impressione?

Generalmente il livello dinamico notato in partitura equivale al livello dinamico del live electronics. Ci sono comunque molte eccezioni a questa regola: alcune sono notate in partitura, altre derivano da una tradizione orale, dalle indicazioni date da Nono ai singoli interpreti. Infine possono dipendere dallo spazio di esecuzione, sia in termini di dimensioni, sia di caratteristica acustica. La concezione musicale di Nono si basa proprio sull’interazione fra suono acustico e suono elettroacustico. Il suono prodotto dai gruppi è dunque sottoposto a un processo di elaborazione in live electronics, è una situazione complessa. Per il coordinamento degli esecutori sono necessari due direttori d’orchestra. Si può produrre questa impressione.

Quanta differenze ha fatto, sul piano acustico, l’assenza della struttura di Renzo Piano?

La struttura di Piano dell‘84 aveva rimpicciolito lo spazio d’esecuzione di Prometeo, rispetto allo spazio totale della chiesa. In qualche modo favoriva un’esecuzione più intima e immersiva, con la possibilità di sfruttare musicalmente lo spazio interno ed esterno alla struttura. Alcuni diffusori erano stati collocati fuori. Nella situazione d’oggi, essendo il pubblico collocato a terra, lo spazio si è allargato. Si sentiva di più la separazione fra la zona di clausura e quella aperta ai fedeli esterni, ottenendo così una situazione equivalente, anche se differenziata da quella dell’84, fra spazio interno ed esterno.  Personalmente ho trovato musicalmente più efficace per Prometeo l’acustica del 2024. Certo che la struttura di Piano aveva un importante valore simbolico, di contenitore preposto all’ascolto. In effetti in molti appunti di Nono troviamo questa necessità di usare uno spazio interno e uno esterno. E la struttura di Piano aveva tutti i musicisti al suo interno, però alcuni altoparlanti erano anche al di fuori. L’idea di spazio di Nono è un’idea che va dal vicino al davvero molto lontano. Poi lontano arriva al silenzio. Ciò si realizzava attraverso questa relazione tra suono interno e suono esterno. San Lorenzo poi ha un suo suono, che per me è il suono del Prometeo. La presenza dell’Arca di Piano aveva un grande impatto anche simbolico per l’atteggiamento dell’ascolto, ma indubbiamente rimpiccioliva lo spazio della chiesa, creando un ambiente più “da camera”, per così dire.

Come avete ricostruito gli effetti utilizzati all’epoca?

Questo si realizza attraverso tecniche di analisi delle apparecchiature dell’epoca. Ad esempio il vocoder usato nell’Hölderlin, che è un banco di 48 filtri, ha richiesto di analizzare i filtri originali, trovare la risposta d’impulso di ciascun filtro e, mediante computer, simulare la stessa apparecchiatura per ottenere lo stesso risultato. Quindi tutti i dispositivi analogici dell’84 – i registratori a nastro che facevano i delay, le commutazioni elettroniche analogiche, la spazializzazione – oggi vengono rifatte simulando esattamente le tecniche di allora, con gli altoparlanti e le apparecchiature attuali, che sono decisamente migliori. Qualsiasi apparecchiatura ha delle tendenze interne estetiche. L’estetica di Nono non è quella delle apparecchiature commerciali di oggi. Quindi bisogna utilizzare ciò che oggi c’è per ottenere quel risultato sonoro, estetico, di processo e di trasformazione del suono, che fa il suono di Prometeo.

Foto: Serena e Silvia Nono © Sabrina Corabi
Foto: Serena e Silvia Nono © Sabrina Corabi

SERENA E SILVIA NONO Incontriamo le figlie del compositore, attive con la madre in un’encomiabile opera di divulgazione, nella magnifica sede della Fondazione Archivio Luigi Nono alla Giudecca. Fondato nel ’93 da Nuria Schönberg, l’Archivio conserva 23000 manoscritti, 12000 fogli di appunti, scritti di carattere musicale, teorico e politico, 6400 lettere e molto altro. È un punto di riferimento per storici e studiosi di tutto il mondo.

È giusto pensare che Nono considerasse la musica anche una leva per cambiare il mondo, o almeno per provarci, più di altri protagonisti della musica del suo tempo forse meno engagé? Più che un mestiere un modus vivendi.

SERENA – Senz’altro era così, ma io credo che sia cosi per tutti i compositori, in realtà. Almeno quelli che abbiamo conosciuto noi, insomma, vivevano appieno la loro professione. Di persone che lo facevano per mestiere io non ne ricordo francamente.

SILVIA – Penso che papà fosse una persona che viveva molto intensamente il momento storico. Tutto era legato, la musica, tutti gli aspetti della sua vita erano molto legati insieme e sentiti con la stessa intensità. Poi ovviamente la musica era il suo modo di esprimersi, tutto passava attraverso la musica. Era difficile separare le cose in quel senso.

Aveva un’attenzione, una sensibilità estrema per ciò che gli succedeva intorno sul piano sociale. Sappiamo che la sua attività era anche legata al fatto politico, nella migliore accezione del termine, che comunque in quegli anni era molto presente.

SILVIA – Sì, era un sentire molto forte tutto quello che succedeva nel mondo. Un modo di vivere in maniera molto intensa quello che era il momento storico. Non uno stare ad assistere e poi comporre la propria musica a lato, no?

C’era una forte volontà di trasformazione, proprio attraverso l’attività musicale. Ieri ho sentito la mancanza della struttura di Piano, importante anche sul piano acustico, che accoglieva tutti i musicisti in un unico alveo.

SERENA – Sì, ma anche quella struttura si estendeva su due ambienti. Solo che, a differenza di oggi, allora in San Lorenzo mancavano le due grandi grate quadrate, che erano state tolte. Per cui un po’ vedevi di lato, diciamo. Comunque l’altare divideva le due sezioni, quindi la struttura di Piano continuava, come anche questa. Certo questa continua solo sotto, mentre quella di Piano continuava a livello più alto, perché non c’erano quelle due grate quadrate. C’era solo quella superiore a semicerchio, quindi tu vedevi il lato un po’ in profondità, ma l’altra parte era comunque separata.

Renzo Piano non è stato coinvolto in questa occasione?

SERENA – No, ha dato l’autorizzazione per esporre varie cose. C’è una mostra interessante su Prometeo alle Zattere, in uno dei Magazzini del Sale, fatta con i ragazzi della scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti. Utilizzando dei materiali originali – ad esempio la lettera di mio padre a Piano e altri materiali proprio iniziali sul Prometeo – hanno elaborato delle “stanze” diciamo, dedicate a questi materiali, in una forma di loro ideazione. Sono state allestite due sale, la prima con i disegni della struttura che c’è adesso, perché la mostra è in collaborazione anche con la Biennale ASAC (Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia, ndr.), mentre nella seconda sala ci sono i disegni di Piano, riprodotti appunto con la sua autorizzazione.

Quali sono le prospettive di questo bellissimo luogo che ospita la Fondazione?

SERENA – Dunque, questo spazio è bellissimo però purtroppo non abbiamo i fondi per gestirlo… Nel senso che abbiamo un contributo ministeriale, che però non basta a coprire le spese di personale e tutto il resto. Quindi a un certo punto abbiamo dovuto fare un appello chiedendo: come facciamo a sopravvivere con l’Archivio Nono, che ha oltretutto moltissime attività, moltissimi studiosi? Cioè, è un archivio vivo come vedete (ci sono molti studenti in visita e alcuni ricercatori al lavoro, ndr.). Ed è sempre così, non solo adesso che c’è il Prometeo. Abbiamo sempre scuole, studenti, oltre a fare anche noi varie attività. Abbiamo cominciato ad esempio a tenere un Festival ogni anno a novembre con incontri, musica, teatro, cinema, danza, presentazioni di libri.

Qui, in questa sede?

SERENA – Anche qui, ma anche in collaborazione con molte altre istituzioni veneziane, dove si tengono altri eventi. Per esempio la fondazione Prada, la fondazione Cini, il Conservatorio, la Fondazione Levi, l’Ateneo Veneto e quest’anno anche il Museo del ‘900, che è a Mestre. In questo modo, con queste collaborazioni, riusciamo a fare tanti tipi di eventi diversi, anche aiutati dalle altre istituzioni che mettono a disposizione gli spazi, l’organizzazione e così via. Però detto questo, guardando al futuro, proprio non ce la facciamo con i soldi. In questi anni siamo riusciti anche perché avevamo i diritti di Schönberg, che sono scaduti l’anno scorso ed erano veramente fondamentali, perché mia mamma li investiva qui. Scaduti quelli, non ce la facciamo più. Quindi abbiamo fatto questo appello generale. E la Biennale ha risposto, il suo presidente Roberto Cicutto è stato il primo e forse l’unico a rispondere. Loro stanno costruendo questo centro di studi permanente all’Arsenale, riportando l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee – che adesso è a Marghera – dentro questi nuovi spazi all’Arsenale, dove fanno anche le esposizioni della Biennale. Per cui ci ha chiesto se volevamo essere ospitati là, cioè ci ha offerto di trasferire l’Archivio e continuare la nostra attività in collaborazione con loro. Così abbiamo firmato una convenzione con la Biennale ASAC, che decreta l’ospitalità del fondo dell’Archivio Nono nel nuovo Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee, che verrà creato in questa nuova sede all’interno dell’Arsenale.

Avrete spazi adeguati, saranno sufficienti?

SERENA – Dunque, loro ci stanno lavorando. Sono venuti anche i loro architetti qui a vedere. A noi dispiace lasciare questo spazio, però cosa dobbiamo fare? Non c’è un’altra possibilità.

L’Archivio è aperto tutta la settimana?

SERENA – Quattro giorni, dal lunedì al giovedì. Sul sito della Fondazione si trovano tutte le informazioni e adesso abbiamo aggiunto anche i cataloghi. È tutto digitalizzato, tutti gli schizzi, le partiture, le fotografie. Tutti i materiali che sono in archivio sono digitalizzati e consultabili online. A parte l’epistolario perché ci sono problemi di diritti, cioè devi chiedere l’autorizzazione agli interessati o agli eredi, almeno per quelle che non sono di nostro padre. Che altro, alcune foto sono consultabili ma non scaricabili, perché anche quelle sono soggette a diritti. Così come alcuni video, perché sono magari produzioni Rai o cose così e lì sono terribili, non possiamo divulgare niente (risate, ndr.)… Però da lì puoi sapere cosa c’è, comunque. È molto utile anche per le persone in giro per il mondo. Magari vengono qui lo stesso, ma prima consultano e capiscono. Vengono già preparate, sapendo su cosa poi lavoreranno.

Possibilità che, ai tempi di Nono, erano ancora molto remote.

SERENA – Certamente.

Avete un’attività editoriale come Fondazione?

SERENA – No, abbiamo fatto qualche pubblicazione sporadica, veramente. Però abbiamo questo rapporto con il Saggiatore che ha già pubblicato una serie di libri, soprattutto sugli epistolari e uno invece su tutti gli scritti di nostro padre, con interviste e così via: “La nostalgia del futuro” uscito nel 2020 e già ristampato. Qui all’ingresso trovate tutti i libri ai quali abbiamo collaborato. Non sono pubblicazioni fatte da noi, tranne un paio, ma sono tutte pubblicazioni fatte grazie ai documenti dell’Archivio.

Al di fuori di questo impegno, quali sono oggi i vostri interessi?

SERENA – Noi abbiamo altre attività, io sono pittrice e ho fatto alcuni film come regista.

Un’altra artista in famiglia.

SILVIA – Io invece lavoro nell’editoria e vivo a Roma in realtà.

Figlie e nipoti di artisti tanto rilevanti, Silvia e Serena hanno molti legami con il mondo dell’arte e dello spettacolo, che lasciamo alla curiosità degli internauti. Finita la nostra chiacchierata ci portano a visitare, al centro di una sala attigua, un enorme scrigno blindato dov’è conservato un folto archivio di partiture, libri e dossier appartenuti a Luigi Nono. Un vero tesoro per i ricercatori. Mentre ci avviamo all’uscita incontriamo nuovamente Nuria Schönberg, giunta a fine mattinata per accogliere un gruppo di studenti.

NURIA DOROTHEA SCHÖNBERG Presenza vitalissima alla cui intelligenza e capacità organizzativa si deve essenzialmente la costituzione dell’Archivio Luigi Nono. Nata a Barcellona nel 1932 da mamma Gertrud, librettista d’opera (firmò col nom de plume Max Blonda il libretto per Von heute auf morgen) e papà Arnold Schönberg. Cresciuta culturalmente tra America ed Europa, questa cordiale e simpaticissima signora è l’insostituibile testimone d’una vita condivisa con due dei musicisti più importanti del secolo scorso. Abbiamo raccolto queste sue parole.

Come ha vissuto questi intensi giorni di ripresa del Prometeo, quarant’anni dopo?

NURIA SCHÖNBERG – Per me è stata un’emozione enorme sentire questi concerti, che oggi sembrano normali e che allora erano difficili. E vedere il pubblico che apprezza, che chiede di venire e ci contatta per sapere se ci sono ancora biglietti. Sì, un’esperienza veramente particolare in tutti i modi. Una cosa molto, molto speciale, in un periodo come questo. Perché non succede tutti i giorni, anche questa partecipazione durante i concerti, si sente che è qualcosa di speciale. Le esecuzioni sono ottime, tutti meritano gli applausi che hanno avuto e anche di più. Non è importante, però io sono molto contenta.

Cosa può dirci del Nono del tempo della prima edizione?

Pensando al titolo Prometeo. Tragedia dell’ascolto, ricordo che la parola più importante per Gigi era proprio la parola “ascolto”. E quando scriveva, immaginava veramente come questa musica sarebbe stata. Non tanto come sarebbe stata ricevuta da un pubblico, quanto da chi avrebbe dovuto cantarla o suonarla. Questo è stato sempre molto importante per lui. Durante le prove lavorava sempre con cantanti e strumentisti e aveva un modo molto gentile e molto tranquillo di parlare con chi doveva esprimere questa musica. Parlava, spiegava e faceva capire perché si dovevano eseguire queste cose in un certo modo. E quando qualcuno gli diceva “questo non si può fare”, lui trovava sempre modo di spiegare, “ma no, puoi fare così, devi mettere le dita così…”. Per lui questa relazione con gli esecutori era molto importante. Perché sì, c’è la partitura, ci sono le note, ci sono le parole, ma se anche chi deve esprimerle sente le emozioni, i sensi, allora anche il senso di ciò che voleva veramente esprimere arrivava. Nella la sua vita Gigi è stato molto fortunato ad essere circondato da persone che provenivano dalla scienza, dalla poesia, dalla letteratura. Lui era molto aperto a tutte le forme d’arte e di comunicazione. Devo dire che lui è stato fortunatissimo, perché ha avuto molti successi anche in altri Paesi e molti giovani vengono in archivio a studiare. C’è ancora tanto, tanto interesse e questo mi fa moltissimo piacere. Perché lui era uno che voleva comunicare, voleva dire. E voleva che gli altri ascoltassero.

MASSIMO CACCIARI

Professor Cacciari, che cosa può dirci oggi dei suoi contributi al Prometeo, della realizzazione dell’opera e del suo rapporto con Nono?

Sa, quello che posso dire si trova già nel libro di Ricordi uscito quarant’anni fa. Lì c’è una cosa mia e una lunga conversazione tra me e Nono, chi è interessato può leggerla e capire. Non è possibile in due battute parlare della cultura e della filosofia dell’epoca e tantomeno della mia amicizia con Nono. Gli interpreti, se sono intelligenti, suonando quella musica sarebbe bene che avessero in testa quei discorsi, quei pensieri, quelle parole. Quello è il significato di quei testi. Componendo il Prometeo Nono leggeva e aveva in mente quei testi: Eschilo, Benjamin, Hölderlin eccetera. Molto semplice.

L’opera è divisa in Isole e Interludi, un arcipelago organizzato spazialmente. È corretto parlare di frammenti?

Io non sono affatto d’accordo con una lettura frammentata del Prometeo. Il Prometeo non è un’opera di frammenti poi ricomposti. A volte è stato eseguito cosi ed e stato eseguito male. Secondo me è proprio una sinfonia, con i suoi bei settori. C’è un prologo, poi c’è un pezzo intermedio, poi un lungo, lungo andante verso il silenzio. Come in Das Lied von der Erde, finisce così. Infatti Nono allora continuava ad ascoltare Mahler e Das Lied. Frammentario, dove? Non so.

Cosa pensa dell’affermazione che la musica sia un linguaggio? Qual è l’essenza della musica?

La musica è musica, la poesia è poesia, la pittura è pittura, la filosofia è filosofia. Ogni linguaggio artistico è autonomo e autosufficiente. La musica non è la parola e quindi non è traducibile in parola. Non posso prendere il Prometeo di Nono e tradurlo in parola. Ma nella testa di un musicista, di un artista, abitano diversi linguaggi. L’artista è un multiverso, dopodiché si esprime in quel determinato linguaggio. Per cui Nono va inteso, letto e interpretato in quanto musicista e così va letto e interpretato anche il Prometeo. Purtroppo Nono ha avuto, in un periodo della sua vita, la sfortuna di essere letto da molti in una chiave politica. Ma sono tutte letture sbagliate. Vi sono profonde continuità tra il cosiddetto primo, secondo, terzo o quarto Nono, vi è un’evoluzione nel linguaggio. Non vi sono salti da un momento engagé a un momento mistico, spirituale. Vi sono passaggi in cui anche la disponibilità di nuovi mezzi l’ha aiutato, perché il problema che aveva sempre avuto era creare un suono che si muovesse, si trasformasse, che non restasse dentro cornici predeterminate. Era un suo bisogno permanente. E quando ha incontrato tecnici, ovvero techné nel senso di ars techné in latino si traduce ars – quando ha avuto mezzi tecnici adeguati, ha espresso meglio idee che aveva sempre avute. Il problema di un compositore è quello di comporre, non di far propaganda o di far politica e quei mezzi glielo hanno permesso. Il Prometeo in questo senso è un po’ in mezzo tra Al gran sole e le opere successive. L’ultima parte del Prometeo introduce tutte le opere successive di Nono, dove il problema è proprio di un suono che arrivasse all’inudibile, no? Già nell’ultima parte del Prometeo e poi nelle ultime composizioni diventa quello decisivo, di una musica che davvero si avvicina all’inudibile. E questo nel Prometeo si annuncia in qualche modo. Ma per certi versi invece il Prometeo sta ancora dalla parte di Al gran sole, almeno penso.

Nono diceva che la musica, che non è linguaggio, serviva per «spezzare le idolatriche catene dell’immagine». Tragedia dell’ascolto è invece un’espressione sua: che origine ha?

Appunto, qui parliamo di idee e quindi non di musica. Per dare una traccia molto semplice, perché Prometeo? Perché era una figura che ci sembrava, sembrava a Gigi, esser stata tradita dalla tradizione culturale contemporanea. Prometeo come rivoluzionario, come colui che si confronta polemicamente con l’Olimpo vigente, con l’Olimpo dominante, con un gesto di ribellione, di rottura e basta? No, quello che conta è quale forma hai in mente, quale forma vorresti porre al posto di quella che ti pare usurata, consumata. Quindi il primo momento è quello del Prometeo che non è il ribelle di Eschilo, la prima Isola grossomodo è intorno a questa idea, no? Dopodiché il Prometeo, che non è il prepotente ma colui che si oppone drammaticamente alla prepotenza, è rappresentato nel testo dalla figura di Io, che viene perseguitata dal Dio invidioso e sovvertitore. E poi quella che possiamo lato sensu indicare come la vera utopia, dove invece è veramente importante il discorso propriamente musicale. Cioè appunto: ascolta, sospendi il discorso, fai silenzio. Lì c’è il momento della rottura. Il tempo continuo, quel tempo della durata, il tempo del consumo, dell’andare da niente a niente, del nichilismo se vuoi, ecco interrompilo. Qui non c’è più musica-durata, ma c’è l’insistenza sul momento dell’interruzione o della ripetizione. Che è anche un’interruzione del tempo: al continuo sostituisci l’istante, rompi il continuo con una serie di istanti musicali. Quello è il momento proprio dell’atomo musicale che devi cercare, mettere in evidenza. Questo stesso momento di singolarità è nell’idea dell’isola, è il momento centrale del Prometeo, in cui vieni riportato e insisti sulla singolarità del suono: ascoltalo in silenzio e ascolta l’essenziale. Cosa vuol dire ascolta, perché devo chiederti di ascoltare? L’orecchio è sempre aperto, tu ascolti. Ma ascolta ciò che propriamente è essenzialmente ascoltabile. Cos’è che è propriamente ascoltabile? È proprio il silenzio. Spingi il tuo ascolto fino ad ascoltare il silenzio. Questo nell’ultima parte della composizione di Nono, diventa assolutamente ossessivo e con grossi problemi, penso, anche per gli esecutori, per coloro che con Nono lavoravano in équipe alla realizzazione delle sue ultime composizioni. Ma è un grande tema, perché appunto questo significa la tragedia dell’ascolto. Lì sì era la rivolta, direi proprio la rivolta contro il mondo contemporaneo, che funziona esattamente in un senso opposto, no? Non fa ascoltare, distrae dall’ascolto, ti travolge con immagini, con chiacchiere, tutto fa fuorché farti ascoltare. Tutto produce fuorché quegli instanti in cui tu, concentrandoti su te stesso, tendi l’orecchio fino a riuscire ad ascoltare il propriamente inudibile. Il mondo contemporaneo va in direzione opposta. Allora l’ultima parte del Prometeo è quella che a Nono appariva la vera rivolta: contro l’immagine, contro la drammaturgia di immagini. All’inizio cercava ancora un’opera che avesse una parte come Al gran sole o qualcosa di simile, tanto è vero che cercò Kantor, parlammo con Ronconi, aveva questa idea. Poi via via, mentre componeva cancellava, che è il vero gesto dell’artista, cancellare. È facile scrivere, difficile è cancellare quello che hai scritto. Cancellava, cancellava finché ha ridotto tutto alla musica, a uno spazio al servizio della musica, dell’ascolto, niente di scenografico. Lo spazio non è una messinscena, la nave di Piano non è una messinscena. Era lo spazio che Nono voleva perché quella musica fosse ascoltata al meglio. Non era la collaborazione con l’archistar per rendere più spettacolare qualcosa, esattamente l’opposto. Lo dico perché ancora viene letta così, invece è esattamente l’opposto. Con Piano si lavorava per realizzare uno spazio che funzionasse perfettamente all’ascolto musicale, come funzionavano certe chiese, come per certa musica funziona San Marco, questa era l’analogia. Dunque è necessario, se si vuole rendere giustizia a quell’idea dell’ascolto, che ogni volta ci sia uno spazio come San Lorenzo. Come l’Arca di Piano è impossibile, perché sciaguratamente è andata distrutta. Peccato perché era un’opera bella, di bel design, di bella architettura. Ma l’hanno distrutta, lasciata marcire, succede in Italia. L’idea, dopo il Prometeo, era di mantenerla e ricollocarla lì. Sarebbe stata una forte attrattiva culturale per Venezia, avere un’opera di Piano con quella storia in una chiesa veneziana. Sì parlò anche con la Scala di salvaguardare l’opera, per rendere possibile in futuro questa ricollocazione, ma non se ne fece niente.

Lei sa dov’è ora?

Sì, l’ho vista. È totalmente andata in malora in un magazzino della Brianza, completamente marcita. Credo che l’abbiano buttata via, che l’abbiano rottamata definitivamente.

Come andò con Emilio Vedova?

Ci fu un momento in cui si pensava che Emilio potesse intervenire con mezzi simili a quelli che aveva usato a Montréal, quando organizzò il padiglione italiano per un’esposizione universale, con delle proiezioni. Eliminando ogni elemento scenografico, ciò che tutti detestavano e io continuo a detestare. Non riesco ad andare a vedere un’opera lirica, mi viene male a vedere le messe in scena, i costumi, mi distrae totalmente dall’ascolto, non riesco ad ascoltare, a sentire musica, se vedo persone agitarsi in scena, pupazzate su, è impossibile. Ed era così anche per Nono. Non è un elemento iconoclastico attenzione, perché non c’è niente di iconoclastico nella musica, nella poesia: c’è la musica e c’è la poesia. Si fecero tante prove nello studio di Vedova con questi vetrini, dopodiché risultò che anche quella era una cosa distraente, che non funzionava. Così Emilio collaborò con alcuni elementi minimi di luce, ma soprattutto con la cosa più essenziale: con l’amicizia.

Si ringraziano:
Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) per la Giornata di studi del 29 gennaio presso la Biblioteca della Biennale “Prometeo ieri e oggi. L’utopia di Luigi Nono”, durante la quale sono state raccolte alcune delle testimonianze (Cacciari, Schönberg);
Fondazione Archivio Luigi Nono;
Ufficio Stampa Teatro Musica e Danza Biennale di Venezia.

Foto: Prometeo. Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono, riallestito 40 anni dopo nella Chiesa di San Lorenzo © Andrea Avezzù - Courtesy La Biennale di Venezia
Foto: Prometeo. Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono, riallestito 40 anni dopo nella Chiesa di San Lorenzo © Andrea Avezzù – Courtesy La Biennale di Venezia

Prometeo. Tragedia dell’ascolto di Luigi Nono – Testi a cura di Massimo Cacciari
Per solisti vocali e strumentali, coro misto, 4 gruppi strumentali e live electronics
Committente: Biennale di Venezia

In questa edizione troviamo, oltre ai citati Fabbriciani e Schiaffini: Carlo Lazari (viola), Michele Marco Rossi (violoncello), Roberta Gottardi (clarinetto), Emiliano Amadori  (contrabbasso), le voci di Livia Rado, Rosaria Angotti, Chiara Osella, Katarzyna Otczyk, Marco Rencinai, le voci recitanti di Sofia Pozdniakova e Jacopo Giacomoni, il Coro del Friuli Venezia Giulia con il Maestro Cristiano Dell’Oste. Al live electronics accanto ad Alvise Vidolin, Nicola Bernardini e Luca Richelli.

Venezia, dal 26 al 29 gennaio 2024 all’Ocean Space / TBA21–Academy, Chiesa di San Lorenzo

Per saperne di più su Francesco Rampichini

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